Era ora. Era ora che qualcuno pagasse, era ora che esistessero dei colpevoli, era ora che il femminicidio fosse riconosciuto come un problema sociale e non solo come singolo delitto. Era ora che si riscontrasse una catena di causalità che determinano questo genere di omicidi.
Così la sentenza della Corte d’Appello di Messina che ha condannato i magistrati che lasciarono agire un marito violento, denunciato 12 volte dalla moglie Marianna Manduca, poi uccisa dall’uomo, Saverio Nolfo, 10 anni fa a Palagonia (Catania), è una rivoluzione spero non sottovalutata.
Sì, perché esistono delle responsabilità precise che incidono nell’aumento del numero dei femminicidi.
Troppo spesso donne in difficoltà si rivolgono alle istituzioni e rimangono inascoltate, così le minacce si trasformano in omicidi. Una situazione che fa da deterrente a chi vorrebbe denunciare, fuggire , crearsi una nuova vita ma cambia idea per paura di essere abbandonata dallo Stato.
La sentenza della Corte d’Appello di Messina
La sentenza di ieri si rifà alla legge sulla responsabilità civile dei magistrati e riguarda due pubblici ministeri che nel 2007 – quando avvenne l’omicidio lavoravano alla procura di Caltagirone (Catania). La Corte ha stabilito che ci fu dolo e colpa grave nell’inerzia dei pm che, dopo i primi segnali di violenza da parte del marito, non trovarono il modo di fermarlo, nonostante le reiterate denunce della donna. Nolfo, tre figli, è in carcere dove sconta 20 anni per omicidio.
Ma la vera novità è che, insieme ai due pm, è stata condannata al risarcimento delle parti civili anche la Presidenza del consiglio dei Ministri -all’epoca governo Prodi-che dovrà risarcire 300mila euro ai figli della vittima. Il Tribunale ha applicato la norma sulla responsabilità civile dei due magistrati riconoscendo il danno patrimoniale.
I numeri delle violenze
Forse è il segno che qualcosa sta cambiando, e in effetti molto deve cambiare in un paese dove, secondo l’Agenzia per i Diritti Fondamentali della Ue le donne vittime di violenza fisica o sessuale dai 15 anni in poi sono il 27%, con un omicidio ogni 3 giorni (stanno messi peggio i paese del Nord Europa, basti pensare che in Danimarca le vittime sono il 52% della popolazione).
Secondo gli operatori e i volontari che lavorano in case rifugio e centri antiviolenza in tutta Italia, spesso è estremamente difficile per le donne che subiscono abusi decidere di lasciare il proprio partner, a causa di una dipendenza emotiva e materiale. Anche quando una donna decide di uscire dal contesto violento, il cammino è ancora lungo e arduo. Dal punto di vista procedurale passano fra otto e dieci mesi tra il momento della denuncia e la fine dell’iter giudiziario civile e penale. Questo se tutto va bene.
Il percorso per uscire dall’incubo
Se la donna ha figli minorenni, il percorso può anche durare oltre quattro anni. In questo lasso di tempo, le donne che non hanno familiari che possano accoglierle, restano senza nulla.
Nel caso di femminicidio poi i figli, anch’essi, vittime, rimasti senza genitori si trovano anche a dover affrontare una situazione complessa a cui si è cercato in parte di rimediare con un ddl votato alla Camera a marzo che tutela circa 2000 orfani di questo tipo.
Il provvedimento ha l’obiettivo di offrire tutele legali, mediche ed economiche.
E’ un passo importante per sostenere chi vive questo tipo di difficoltà e restituire loro fiducia nelle istituzioni, renderli consapevoli del fatto che non saranno abbandonate e aiutarli a denunciare e ad allontanarsi da situazioni di pericolo.